domenica 3 novembre 2013

Embrione: una definizione in tre punti

Come spiega il Glossario di Bioetica, dal greco "en-brion" ("fiorisco dentro"), è l'essere umano dal concepimento fino a 2 mesi di gestazione, che già ha una appartenenza sessuale, un DNA diverso da quello dei genitori

Roma, (Zenit.org) Carlo Bellieni | 165 hits

Embrione: dal greco "en-brion", cioè "fiorisco dentro", è l'essere umano dal concepimento fino a 2 mesi di gestazione, che già ha una appartenenza sessuale, che ha un DNA diverso da quello dei genitori, di cui porta solo una traccia.
Realismo
E’ un essere vivente (cresce, ha un metabolismo) con 46 cromosomi (in caso di malattia genetica i cromosomi possono variare di numero), ottenuti dalla fusione e dal rimodellamento del DNA dei 23 cromosomi presenti nell’ovocita, e dei 23 cromosomi presenti nello spermatozoo. Dal momento della fusione di ovocita e spermatozoo, si crea un DNA nuovo, che non appartiene né alla madre né al padre, ma ha caratteristiche tutte sue, pur mostrando in tanti aspetti il legame con le due figure di provenienza. L’embrione si dice tale - per convenzione - fino a 8 settimane dal concepimento, quando è già presente un cuore che batte. Lo sviluppo di un embrione è tumultuoso e rapido: aumenta di dimensioni con una rapidità che non si riscontra in nessuna altra epoca della vita.
La ragione
A chi sta a cuore l’embrione umano? A chi lo studia, a chi lo fa crescere in sé, a chi sa di esserlo stato e ne vuole la protezione per un senso di giustiza: se si protegge l’adulto sano e responsabile, tanto più va protetto l’embrione umano, che non è un “uomo in potenza”, ma un “uomo all’inizio”. Certo che ogni manipolazione ne mette a rischio la sopravvivenza, la salute e di conseguenza la futura salute nel corso della seguente vita.
Cosa ci aiuta ad identificare l’embrione come persona umana? In primo luogo la sua vitalità ne mostra lo stato di essere vivente e il suo corredo cromosomico ne mostra l'appartenenza al genere umano. Ma colpisce che l’embrione ha un rapporto speciale e diretto con il corpo della madre, che non si riscontra assolutamente in altri analoghi fenomeni di contatto tra due esseri geneticamente diversi. Infatti ha un rapporto di “dialogo” con le cellule della tuba uterina (il breve canale attraverso cui l’ovocita arriva dall’ovaia nell’utero se non avviene la fecondazione, o in cui si forma l'embrione se avviene la fecondazione). Questo dialogo avviene attraverso lo scambio di ormoni e proteine che hanno lo scopo di indicare al sistema immunitario della madre che l’organismo appena concepito non è un “corpo estraneo” da attaccare, pur essendo di altra composizione genetica. E’ questo il punto più spettacolare: laddove tutto in natura fa sì che il corpo estraneo piccolo venga distrutto dall’organismo grande in cui si introduce, in questo caso c’è collaborazione, dialogo, pur essendo chiaro che l’embrione non è parte del corpo della madre: il suo DNA è assolutamente diverso.
Il sentimento
Eppure lo siamo stati tutti! L’embrione e la madre iniziano un cammino a due, in cui anche nel segreto dell’intimità fisica "la madre fa la madre": il suo corpo accoglie in modo paradossale questo “corpo estraneo”; ma anche "il figlio fa il figlio" pur all’alba della sua comparsa, mandando addirittura delle cellule embrionali in circolo nel corpo della madre, cellule che incredibilmente non solo non vengono distrutte dal soggetto adulto, ma che possono in alcuni casi essere terapeutiche per lei. E’ evidente che ci troviamo di fronte a qualcosa di nuovo e di sostanzialmente e naturalmente buono.
Link esterni:
DONUM VITAE

ANGELA E SUA FIGLIA SONO SALVE. NONOSTANTE LA SANITA'

Foto: ANGELA E SUA FIGLIA SONO SALVE. NONOSTANTE LA SANITA' 

di Stefano Magni
28-10-2013
Alla fine Angela Bianco ce l’ha fatta. È stata operata al suo tumore al cervello e l’intervento è riuscito. Usando un moderno strumento di radioterapia, il Cyberknife, si è potuto colpire il tumore senza compromettere il feto. Angela lo aveva posto come condizione vincolante: non accettava di sacrificare la vita della figlia per salvare se stessa.

Angela, dunque, ce l’ha fatta. Ma non in Italia, né presso una struttura della sanità pubblica. Dopo il calvario subito all’ospedale di Bari, dove il Cyberknife c’era ma non si poteva usare, Angela aveva ricevuto una serie di inviti da parte di cliniche private in tutto il Paese. Alla fine, benché non si conoscano i dettagli della sua scelta e del suo trasferimento, Angela è ricomparsa ad Atene, in una clinica privata, a dare il lieto annuncio.

Quest’ultima vicenda di malasanità, conclusasi bene solo per l’eroismo della paziente, non certo per il nostro sistema, deve far riflettere su alcune cifre. La sanità in Puglia, teoricamente il fiore all’occhiello dell’amministrazione Nichi Vendola (leader del Sel, oltre che governatore della Regione), ha mostrato tutta la sua inefficienza burocratica, nonostante il suo costo sia sproporzionato alle casse regionali. Nel 2011, infatti, la sanità pugliese registrava un disavanzo di 1 miliardo e 103 milioni di euro e si piazzava terza nella classifica delle regioni con il bilancio sanitario più in rosso, dopo Lazio e Campania. Giusto per fare un paragone, se negli ultimi anni abbiamo sentito parlar male solo della sanità lombarda e del crack del San Raffaele, dobbiamo ricordare che la Lombardia, in quello stesso anno, aveva un avanzo di 45 milioni (nel 2012 registrava ancora un avanzo di 22,17 milioni), contro il miliardo e passa di disavanzo della Puglia. A cosa siano servite tutte quelle spese, non si sa. Nell’ospedale di Bari dove Angela avrebbe voluto farsi operare, il Cyberknife c’era, dunque qualcuno aveva sborsato i quattrini necessari a comprarlo. C’era ma non si poteva usare: vedi alla voce “spreco”. Il policlinico di Bari ha ricevuto dalla Regione 170mila euro per operazioni di cambi di sesso per operare la “disforia sessuale”, decisamente meno grave di un tumore al cervello. Di sicuro nessuno è mai morto per non essere riuscito a farsi cambiare subito il sesso.

Il problema della sanità pubblica non si limita alla sola Puglia. In queste settimane abbiamo assistito al teatrino governativo per non tagliare la spesa sanitaria. Ma nessuno può dire, con cognizione di causa, che si spenda troppo poco. La spesa pubblica per la sanità è aumentata del 64,1% in 10 anni, dal 2000 al 2011. a un ritmo doppio rispetto all’aumento del Pil (31,9%). Lo rileva uno studio di Confartigianato. Nel 2012, la spesa per la sanità ha raggiunto quota 114,5 miliardi, pari al 14,2% della spesa pubblica totale. In Italia ammalarsi costa più caro che nel resto della Ue: tra luglio 2007 e luglio 2012 servizi e prodotti sanitari sono cresciuti del 14,1%, 5,7 punti in più dell’Eurozona. Negli stessi dieci anni, però, la spesa dei privati per la sanità è cresciuta del 25,5% (secondo il rapporto Censis). Il che vuol dire che, sempre più italiani (un quarto in più rispetto all’inizio del millennio), non fidandosi del pubblico, si rivolgono al privato. Cattiva abitudine? Non proprio: nel caso di Angela, che ha preferito addirittura rivolgersi alla vicina Grecia, è una questione di vita e di morte. Per lei e per la figlia che porta in grembo.

lanuovabq.it

 
 
 
 
 
 
di Stefano Magni
28-10-2013
 
 
 
Alla fine Angela Bianco ce l’ha fatta. È stata operata al suo tumore al cervello e l’intervento è riuscito. Usando un moderno strumento di radioterapia, il Cyberknife, si è potuto colpire il tumore senza compromettere il feto. Angela lo aveva posto come condizione vincolante: non accettava di sacrificare la vita della figlia per salvare se stessa.

Angela, dunque, ce l’ha fatta. Ma non in Italia, né presso una struttura della sanità pubblica. Dopo il calvario subito all’ospedale di Bari, dove il Cyberknife c’era ma non si poteva usare, Angela aveva ricevuto una serie di inviti da parte di cliniche private in tutto il Paese. Alla fine, benché non si conoscano i dettagli della sua scelta e del suo trasferimento, Angela è ricomparsa ad Atene, in una clinica privata, a dare il lieto annuncio.

Quest’ultima vicenda di malasanità, conclusasi bene solo per l’eroismo della paziente, non certo per il nostro sistema, deve far riflettere su alcune cifre. La sanità in Puglia, teoricamente il fiore all’occhiello dell’amministrazione Nichi Vendola (leader del Sel, oltre che governatore della Regione), ha mostrato tutta la sua inefficienza burocratica, nonostante il suo costo sia sproporzionato alle casse regionali. Nel 2011, infatti, la sanità pugliese registrava un disavanzo di 1 miliardo e 103 milioni di euro e si piazzava terza nella classifica delle regioni con il bilancio sanitario più in rosso, dopo Lazio e Campania. Giusto per fare un paragone, se negli ultimi anni abbiamo sentito parlar male solo della sanità lombarda e del crack del San Raffaele, dobbiamo ricordare che la Lombardia, in quello stesso anno, aveva un avanzo di 45 milioni (nel 2012 registrava ancora un avanzo di 22,17 milioni), contro il miliardo e passa di disavanzo della Puglia. A cosa siano servite tutte quelle spese, non si sa. Nell’ospedale di Bari dove Angela avrebbe voluto farsi operare, il Cyberknife c’era, dunque qualcuno aveva sborsato i quattrini necessari a comprarlo. C’era ma non si poteva usare: vedi alla voce “spreco”. Il policlinico di Bari ha ricevuto dalla Regione 170mila euro per operazioni di cambi di sesso per operare la “disforia sessuale”, decisamente meno grave di un tumore al cervello. Di sicuro nessuno è mai morto per non essere riuscito a farsi cambiare subito il sesso.

Il problema della sanità pubblica non si limita alla sola Puglia. In queste settimane abbiamo assistito al teatrino governativo per non tagliare la spesa sanitaria. Ma nessuno può dire, con cognizione di causa, che si spenda troppo poco. La spesa pubblica per la sanità è aumentata del 64,1% in 10 anni, dal 2000 al 2011. a un ritmo doppio rispetto all’aumento del Pil (31,9%). Lo rileva uno studio di Confartigianato. Nel 2012, la spesa per la sanità ha raggiunto quota 114,5 miliardi, pari al 14,2% della spesa pubblica totale. In Italia ammalarsi costa più caro che nel resto della Ue: tra luglio 2007 e luglio 2012 servizi e prodotti sanitari sono cresciuti del 14,1%, 5,7 punti in più dell’Eurozona. Negli stessi dieci anni, però, la spesa dei privati per la sanità è cresciuta del 25,5% (secondo il rapporto Censis). Il che vuol dire che, sempre più italiani (un quarto in più rispetto all’inizio del millennio), non fidandosi del pubblico, si rivolgono al privato. Cattiva abitudine? Non proprio: nel caso di Angela, che ha preferito addirittura rivolgersi alla vicina Grecia, è una questione di vita e di morte. Per lei e per la figlia che porta in grembo.

lanuovabq.it

Giusi Spagnolo affetta dalla sindrome di down si laurea in Lettere a Palermo

La ragazza Giusi Spagnolo affetta dalla sindrome di down si laurea in Lettere a Palermo: è il primo caso in tutta Italia.
Un sogno che è diventato realtà. Questa è la storia di Giusi Spagnolo, la 26enne colpita dalla sindrome di down, che ha coronato il suo sogno più grande della sua vita: si è laureata in Lettere per fare la maestra. Lei con un grande coraggio di far vedere al mondo che anche chi soffre di questa malattia, può riuscire a studiare, ed ad laurearsi senza grandi problemi; c’è la fatta
Tanti studenti “normali” declinano nel proseguire il percorso universitario perché al primo ostacolo si abbattono. Giusi no, per lei gli ostacoli sono delle prove da superare e vincere. Eppure la storia di Giusi dovrebbe dare a tutti una marcia in più, una forza maggiore nel credere nei propri ideali e di portarli avanti fino alla concretizzazione. Giusi è arrivata ad conquistare un 105 su 110 nel corso di Beni demoetnoantropologici alla facoltà di Lettere dell’Università di Palermo. Non solo questa soddisfazione per il titolo conseguito, dalla giovane palermitana, ma anche perché ha il primato di prima ragazza down ad essere riuscita a laurearsi.
Giusi non si è lasciata scoraggiare da un cromosoma in più: anzi questo per lei è stato un motivo in più per mettercela tutta. Lo dimostra che in questi anni, oltre allo studio, questa ragazza ha anche lavorato come tutor nella scuola elementare di Montegrappa, portando materiale per la tesi che ha avuto come titolo il ruolo del gioco nell’apprendimento che ha utilizzato nella ricerca sul campo. Logicamente il risultato finale è frutto di un impegno costante nel tempo. “C’è dietro un lavoro di 26 anni – dice il padre, Bernardo Spagnolo -. Un lavoro che è cominciato in famiglia ed è proseguito a scuola. Siamo stati fortunati, abbiamo sempre incontrato professori disponibili e strutture adeguate. Anche all’Università, dove c’è il centro per la disabilità che ci ha dato un grande supporto. Grazie a questo lavoro di squadra, Giusi è riuscita a dimostrare che le persone con sindrome di Down possono accedere ad alti standard di studio. Lei è la prima donna in Italia. Speriamo non sia l’ultima”.
Fortunatamente la scuola italiana non è solo quella che ha autorizzato che un ragazzo down fosse escluso dalla gita scolastica per desiderio della preside, ma è anche quella che ha educato questa audace e ostinata studentessa. Un traguardo autentico che ha alle spalle anche tanta umanità e fermezza di superare anche i momenti duri che sicuramente ci saranno stati. La storia di Giusi è emozionante quanto ammirevole, perché come lei ci sono tanti altri ragazzi down con dei sogni e delle capacità, nascoste nel cassetto, ma lasciano andare, forse perché si sentono o si credono minorati, Giusi ne è la prova che non è cosi. Giusi c’è l’ha fatta questo vuol dire che anche tu puoi farcela.

mercoledì 2 ottobre 2013

Una mamma che ha scelto di rifiutare l'amniocentesi e di accettare sua figlia nonostante il rischio della sindrome di down.

Tante volte abbiamo ricordato come l’aborto sia spesso uno strumento per discriminare i più deboli e soprattutto i bambini malati. Oggi questo nostro allarme si fa invece testimonianza grazie alla forza di chi ha saputo dire di no alla logica del “figlio perfetto” accettando la vita, in tutto e per tutto, per se e per i propri figli, anche se malati o disabili. Non c’è nulla di più vero ed emozionante di un autentico sì alla vita vissuto ogni giorno, quotidianamente.

A parlare con noi è Greta, la mamma delle piccola Esmeralda, l’abbiamo contattata su Facebook dove ha creato una pagina seguitissima dal titolo molto significativo: “Contro l’aborto dei feti down o con spina bifida”. Le sue parole ci hanno riempito di nuovo entusiasmo… tanto che non possiamo non condividerla con voi, giovani prolife, sperando che anche voi ne possiate trarre una nuova forza.

Greta ci racconta che “tutto è iniziato durante gli ultimi giorni dell’anno 2010 e i primi del 2011, con la conferma ufficiale della mia gravidanza (dopo quasi tre anni di relazione) che, anche se in un momento della vita che molti definirebbero inopportuno, dal momento che io avevo diciotto anni, studiavo all’Università, e il padre appena sedici. Dopo i primi momenti di paure ed incertezze, è stata subito ben accolta […] Per un po’ di tempo sono stata una di loro, una di quelle ragazze che aiutate, che aiutiamo, ciascuno a suo modo; non sapevo come sarebbe andata la mia vita, non sapevo se mi avessero separata dal mio ragazzo, non sapevo se avessi perso i miei genitori, sempre così critici verso “certe situazioni”, non sapevo se avessi avuto come mia nuova casa una casa-famiglia”.

Poi arriva il momento di parlare con la famiglia, Greta lo fa “a fine sessione, dopo sette esami e forte di questa conquista. Dopo i primi timori, la mia gravidanza è stata accolta bene anche se pian piano nel tempo. Nei giorni in cui mi sentivo meglio andavo a lezione e così non sono rimasta indietro”. Quando poi arriva il giorno della prima ecografia... “un’emozione che non si scorda neanche quando in seguito si avrà il proprio figlio fra le braccia. Sentire la vita nella sua forma più perfetta dentro di sé è il privilegio assoluto di noi donne, che non scambierei con nessun altra cosa al mondo! Tutto sembrava procedere bene”.

Poi arriva il momento di fare degli esami medici e la situazione cambia. “Il medico però, mi aveva consigliato alcuni esami prenatali e io all’epoca non sapevo di cosa si trattasse. [...] Dopo essermi informata per bene, ho provato un senso di rabbia, di tradimento, perché il medico senza neanche darmi spiegazioni aveva deciso che io avrei dovuto fare quegli esami, pensando che queste procedure sono ragionevoli per tutti, ancora di più per due ragazzini che non possono “rovinarsi la vita” con un figlio “malato”, secondo il linguaggio comune”.

Ormai, però, gli esami erano stati prenotati... “ e l’idea di vedere di nuovo mia figlia attraverso l’ecografia mi ha fatto decidere di andare avanti, anche se già con il padre di mia figlia avevamo stabilito che qualunque fosse stato il risultato avremo rifiutato ogni esame invasivo. Adesso so che questa esperienza doveva assolutamente esserci nella mia vita, anche solo per produrre qualcosa di piccolissimo, ma di buono, come il mio piccolo spazio di ascolto e per testimoniare a favore della vita”.

Arrivano così i risultati: “sono entrata nella stanza del genetista, una stanza gelida, disumana. Ho provato cosa vuol dire maneggiare semplici carte, dopo aver detto il proprio nome e cognome e sentirsi dire con freddezza, come se davanti a loro ci fosse un numero, non un essere umano, “ne dobbiamo parlare”. Parole che, in tutta la loro formale chiarezza ed immediatezza, non si dimenticano. Oltre al genetista c’era una collega, che dava le spalle a lui e a me. Lei, una donna, una donna come me, forse una mamma, chi lo sa, non ha detto una sola parola, non un cenno, non uno sguardo”.

Il ricordo di Greta ci rende partecipi di quanto possa essere disumanizzante il confronto con l’indifferrenza degli altri, specialmente di chi dovrebbe essere lì per aiutarti, per la tua salute e per quella di tuo figlio: “Io non esistevo, mia figlia non esisteva, non c’era nessun paziente da definire essere umano, perché non c’era nessuna umanità in quella stanza. Lui mi guardò e mi disse con lo stesso tono di uno che sta sbrigando una normale, e quasi noiosa, pratica, che il passo successivo sarebbe stato l’amniocentesi. Io gli risposi con fermezza che non era la mia volontà. Lui se ne lavò le mani rispondendo che avrebbe preferito che fosse stato presente anche il padre di mia figlia, ma più per avere un’ulteriore firma che per altro. Comunque per lui andava bene anche così, del resto per legge è solo la madre che conta in questi casi. Ho messo la mia firma, senza tremare, ma con tutto l’amore di una madre che farebbe di tutto per difendere il figlio che le cresce in grembo”.

L’appuntamento è ora con il ginecologo, a cui Greta consegna i risultati degli esami “un test positivo per la Sindrome di Down con la percentuale di 1:110, in sostanza come se fossi una donna di 45 anni! Proprio quel giorno era il 21 marzo, giornata mondiale per la Sindrome di Down. Proprio al ritorno a casa, mio padre mi consegnò una collana con un ciondolo a croce, dicendo di averlo trovato sul pavimento a lavoro. Certe “risposte” di Qualcuno a volte sono proprio immediate! Arrivò anche il giorno della visita dal ginecologo.”

“Esibisco come al solito la mia cartellina verde, un colore neutro perché ancora non sapevamo il sesso del bambino, con tutti gli esami eseguiti, compreso il risultato del tritest. Il medico nel vederlo mi disse subito con serenità: “dobbiamo fare l’amioncentesi”. Io gli risposi che avevo già rifiutato. Lui con sguardo incredulo mi chiese il perché. Io e il padre di mia figlia abbiamo risposto che avremo accettato nostra figlia così com’era. La sua unica domanda è stata: “e se nasce un bimbo down (attenzione, ha detto “bimbo” non grumo di cellule!) che si fa?”. Il padre di mia figlia per niente intimorito rispose che sarebbe stato ugualmente nostro figlio e che anzi, se fosse stato down avrebbe avuto bisogno di un aiuto maggiore, non di essere eliminato. Il medico in silenzio scrisse sulla cartella che io avevo rifiutato l’amniocentesi e declinava ogni sua responsabilità”.

Arriva quindi il giorno del parto, il 3 Settembre, alle 13.35 e a 39+3 settimane “è nata Esmeralda –che significa “speranza”- di 3.580 kg per 51 cm. Ricordo ancora cosa si prova ad uscire trionfanti dalla sala operatoria, anche se in un letto paralizzata dai polmoni in giù a causa dell’anestesia, come se fossi stata la prima donna al mondo a compiere l’impresa!. Ed effettivamente se ci pensiamo, ogni donna che mette al mondo il proprio bambino compie un’impresa unica perché ciascun essere umano è unico ed insostituibile. Per l’emozione di questi momenti non esistono parole, si può restare solo in contemplazione”.

E la vita torna a scorrere con un tesoro immenso in più.. “non contenta dei dolori della mia ferita di 15 cm mi sono attivata per studiare l’ultima materia dell’anno accademico che mi mancava e dieci giorni dopo il parto, il 13 settembre, mi sono presentata in facoltà superando ottimamente l’esame, nonostante il sonno a causa delle nottate. La mia vita dopo due anni procede ancora meravigliosamente così, tra lezioni, libri, latte e pannolini".

Prolife.it Giovani Movimento per la Vita Italiano: Grazie a mia moglie e ai miei figli che mi danno l...

Prolife.it Giovani Movimento per la Vita Italiano: Grazie a mia moglie e ai miei figli che mi danno l...: Riportiamo la testimonianza di Riccardo Cerantola, malato di SLA e padre di due figli Sono un papà di 39 anni, malato di Sla, una delle...