giovedì 24 luglio 2014

Testimonianza: La disabilità non è un limite, siamo una famiglia felice


Francesca e Michele (foto di mamma Veronica)
Francesca e Michele
Mi scrisse tempo fa un’amica appassionata di viaggi non convenzionali, di quelli che parti, stai in mezzo alla gente, dormi per terra e mangi i loro avanzi, se te ne danno. Mi scriveva dal Marocco, era partita come al solito senza meta e senza tempi precisi per il rientro.
Mi raccontava del deserto, dei cammelli e del pregiudizio a cui siamo abituati rispetto all’Islam che non è come ce lo raccontano. Ovviamente. Le sue mail erano sempre dettagliate e piene di una poesia amara, quella di chi cerca ma ancora non trova … una libertà che, come scrive lei, forse non ci appartiene. Le ho risposto d’impeto con un’unica frase: “a ognuno la sua libertà”.
Sì, perché io la mia l’ho trovata, c’è voluto molto tempo e tutta una serie di eventi concatenati.

Michele è stato stra-desiderato, non mi sono nemmeno chiesta se fosse il momento giusto, lo volevamo ed è arrivato. La gravidanza è andata liscia e tranquilla fino al termine, a 39 settimane si programmò un cesareo perché lui era podalico e non aveva nessuna intenzione di girarsi.
È nato il 5 giugno del 2007 alle ore 00.55 (che data 05/06/07!) con un peso abbastanza basso per essere a termine, 2.340 kg.
Il suo aspetto era terribile … peloso e grinzoso, pelle e ossa, sembrava un gremlin, era il più piccolo del nido. Tutti dicevano …”come è simpatico!” giusto per non dire che era brutto … in fondo nessun neonato nelle prime ore è particolarmente bello a parte rari casi.
Dopo pochi mesi è diventato un bambolotto, ha iniziato a prendere peso e la faccina è diventata tonda e paffuta.
Il suo sviluppo è andato avanti abbastanza bene anche se ha iniziato a camminare un po’ in ritardo, a 16 mesi. Non sembrava fosse un bambino diverso se non fosse che non parlava. Mi sono insospettita quando ho iniziato a vedere le sue particolarità e stranezze come la passione smodata per lettere e numeri. Michele ancora non camminava e conosceva già l’alfabeto, a 2 anni riempiva i fogli scrivendo dal n. 1 al 190 senza saltarne uno … ma non parlava.
Era irascibile e noi lo imputavamo al fatto che non riusciva a spiegarsi verbalmente. A circa 2 anni e mezzo l’ho portato al reparto di Neuropsichiatria della mia città (noi viviamo a Olbia in Sardegna), ma non hanno subito riconosciuto l’autismo che poi sarebbe stato diagnosticato.
Michele infatti non è un caso grave (ovviamente rispetto a certi casi più seri..): è quello che si dice un autistico ad alto funzionamento, senza ritardo mentale, con un QI superiore alla media ma senza alcuna competenza sociale.
Ma allora non lo sapevamo ancora e nonostante i roboanti campanelli d’allarme, vedevamo e non vedevamo.
Intanto Michele non accennava a sbloccarsi con il linguaggio. Iniziò a fare logopedia e psicomotricità. Quando lo presero in carico, si accorsero di quale disturbo si trattava e ci consigliarono una visita approfondita presso il centro regionale di NPI per una eventuale diagnosi. Dopo 6 mesi dalla prenotazione della visita ancora aspettavamo la chiamata e lui continuava con le sue terapia ma iniziava piano piano a “sbocciare”.
Ha detto mamma a 3 anni per la prima volta… che emozione… ed è stata la prima parola… avrei scommesso avrebbe detto papà visto quanto sono simbiotici quei due… e invece no! Mamma.
Finché una mattina mi resi conto di avere un ritardo: forse forse sarebbe arrivato un fratellino e infatti …
Stavolta non lo avevamo cercato ma a tre anni dal primo i tempi erano maturi per il secondo. Una gravidanza tranquilla senza nessun problema fino al giorno della morfologica. A ripensarci oggi è ancora “uno schiaffo in piena faccia” come quel giorno sul quel lettino. L’ecografista è diventata a un tratto frenetica, impacciata come di chi non sa come uscirne. Mi disse: “C’è un problemino. Mielomeningocele con Sindrome di A. Chiari e idrocefalo che tradotto per noi profani significa “spina bifida” nella peggiore delle sue forme. E’ una bambina.
Iniziai i controlli approfonditi in centri di secondo livello; ogni medico che ho incontrato in quei pochi, pochissimi giorni mi ha disegnato un quadro tremendo, “sua figlia non camminerà mai, non avrà mai il controllo sfinterico, avrà un grave ritardo intellettivo e tutto questo dopo una serie interminabile di interventi chirurgici. Sua figlia non potrà nascere in Sardegna, dovrà andare lontano e appena nata sarà operata alla spina dorsale.”
Ognuno di loro (tutti obiettori di coscienza) mi spingevano verso l’interruzione senza dirlo e mi mettevano fretta perché le settimane erano al limite. Io mi sentivo schiacciata. Pensavo che mettere al mondo questa bambina per consegnarla a immani sofferenze sarebbe stata una crudeltà, che il mio desiderio di averla con me non poteva condannarla a una vita cosi difficile. Mi spaventava l’idea di lasciare Michele per mesi dopo la nascita della bambina, lui che era piccolo e fragile. Antonello la pensava come me e insieme abbiamo preso l’unica strada che ci sembrava percorribile. Solo molto dopo ho capito che non era cosi.
L’aborto terapeutico è l’esperienza più orribile che una donna possa fare. Tralascio descrizioni truculente e disumane di cui quell’evento è pieno. La mia bimba l’ho vista, la malformazione era ben visibile sulla schiena ma a me è sembrata una bambina bellissima. La perdita è stata enorme e ancora oggi, alla luce di tutto ciò che è accaduto poi, faccio fatica a trovare una vera collocazione a quell’esperienza, è come se la mia vita fosse interrotta in quel tratto, da un grosso buco nero. Ma nulla accade per caso…
Forse ci si chiederà perché abbia raccontato di questa esperienza cosi tragica e intima, che senso ha esporsi in questo modo al giudizio altrui? Beh ho capito solo dopo quanto questo evento sia devastante e oggi cerco di testimoniare la realtà cosi dolorosa di quell’atto. A chiunque si trova nella condizione di dover scegliere dico di non fermarsi al primo parere medico e di prendersi del tempo, se io avessi avuto la mente più lucida e se avessi atteso altro tempo, se non fossi stata cosi terrorizzata forse le cose sarebbero andate diversamente. L’aborto è una strada senza ritorno come ogni atto che porta alla morte. Quello che avviene dopo è ciò che accade in ogni lutto, profondo dolore, senso di perdita e lacrime a fiumi.
Tutto ciò è accaduto a dicembre 2010. A marzo 2011 finalmente veniamo convocati per il controllo di Michele. Per tre giorni siamo stati a Cagliari ed entravamo e uscivamo dall’ospedale (non l’hanno nemmeno ricoverato per mancanza di posti). Ha fatto test su test, è stato filmato e visionato da una buona equipe di medici e il verdetto è stato: “disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato”.
Non ci abbiamo capito molto, abbiamo percepito la volontà dei medici di rendere la “notizia” meno traumatica, ci hanno detto che non era proprio autismo ma un disturbo dello spettro autistico e poi senza ritardo mentale la prognosi è migliore. Noi avevamo già pensato da soli che Michele aveva dei tratti autistici per cui non siamo caduti dalle nuvole ma solo dopo abbiamo scoperto che i medici hanno voluto indorare la pillola perché l’autismo è autismo e le definizioni lasciano il tempo che trovano.
Cosi abbiamo fatto un viaggio di rientro di tre ore con un senso di incompreso, qualcosa ci era sfuggito. Era però chiaro che dovevamo fare tutto il possibile per dargli gli strumenti per recuperare ed eravamo certi che Michele ci avrebbe stupito.
E’ a questo punto che per la prima volta ho capito che quella disabilità che voleva irrompere nelle nostre vite entrando dalla porta principale e che noi avevamo rispedito al mittente, era già entrata dalla finestra. Abbiamo attivato quella enorme macchina burocratica per il riconoscimento dell’invalidità sottoponendoci a quegli inutili e a volte ridicoli passaggi che certamente chi legge conosce bene.
Voglio spendere due parole per descrivere Michele. Non voglio scrivere righe di banalità che ogni genitore scriverebbe su suo figlio, lui è di sicuro bravo e bello e io lo dico perché è cosi ma sopratutto perché sono la mamma. Quello che posso aggiungere è che lui è il bambino giusto per noi, è quello che ci calza a pennello, è quella tessera senza la quale il quadro non sarebbe completo, è una parte di quella libertà di cui scrivevo all’inizio. Ci impegna il tempo e la mente, tutto è orientato alla sua crescita e al suo futuro, lavoriamo oggi per raccogliere domani e i risultati arrivano.
Tutti vedono il suo fascino che poi è quello tipico di tutti i bimbi autistici, un’aurea di mistero e quella brillantezza negli occhi che li fa sembrare di un altro pianeta. Loro sanno già tutto, loro sono al di sopra di tutto e non è detto che decidano di farti partecipare. Michele è anche lui cosi, a volte ti lascia entrare a volte ti chiude fuori, a volte è limpido a volte è incomprensibile.
Lui e le sue manie, le sue passioni smisurate ora per i numeri, dopo per la musica poi per gli strani suoni delle lingue straniere. I suoi rituali e le stereotipie, la luce che brucia gli occhi e i bottoni della polo che gli danno un fastidio incomprensibile, la selettività alimentare che per un anno gli ha concesso di mangiare solo cotolette.
Adesso parla, si esprime abbastanza bene anche se sempre indietro rispetto ai suoi coetanei, ha dei compagni che lo adorano e anche lui li adora, ama la scuola e le sue maestre. Gioca con i suoi coetanei in modo più adeguato rispetto a qualche tempo fa, sta lentamente migliorando le sue capacità sociali. Ma c’è ancora molto, moltissimo da fare…
Tutto sembrava avvenire in un lampo e io avevo sempre in mente quella bimba persa, volevo subito un altro figlio, volevo scacciare quel ricordo, volevo rimediare. Dopo 6 mesi sono rimasta ancora incinta. Ero felice, non poteva ricapitare quello che era successo nella gravidanza precedente. Ricordo uno scambio con la ginecologa che mi disse di stare tranquilla, che non aveva mai conosciuto una coppia con due episodi uguali, certo, avevo risposto, non un’altra spina bifida ma le possibilità sono tantissime.
Appunto…
I problemi sono iniziati all’ultrascreening, esame che incrocia i dati della translucenza nucale e del b-test, esprimendo la probabilità che il feto sia affetto da anomalie cromosomiche o alterazioni cardiache e che si effettua a 11 settimane circa. Il mio risultato della translucenza era buono, 1,8 mm mentre il bitest era disastroso, avevo un valore cosi basso da essere quasi indosabile.
Il risultato era 1:50 per Sindrome di Down, ciò significava che avevo una probabilità su 50 che il feto fosse affetto da una qualche anomalia (la SDD la utilizzano come indicatore perché la più frequente). Era un pessimo risultato e mi mandarono subito ad effettuare una villocentesi. La villocentesi è un esame simile all’amniocentesi con la differenza che vengono esaminati tessuti placentari e non fetali e che si effettua precocemente rispetto all’amnio.
E’ stato un esame un po’ fastidioso, non esattamente doloroso certamente fonte di molta ansia. Le due settimane che sono seguite sono state interminabili. Ho passato le ore sul web a cercare risposte, storie e esperienze.
Una mattina arriva la telefonata fatidica, era la genetista da Cagliari che mi dice “abbiamo pronti gli esiti, signora lei è sicura di essere ancora incinta?”. L’esito era trisomia 16 omogenea, incompatibile con la vita.
Corsa in ospedale per verificare se il battito c’era ancora. E lei era lì… era di nuovo una bambina. La genetista mi spiegò a grandi linee che doveva esserci stato un errore, che non era possibile arrivare a 15 settimane con un’anomalia cosi grave. Fissiamo nuovo appuntamento e torniamo dalla genetista che vuole vederci di persona.
Ci spiega che la trisomia 16 omogenea è la trisomia più frequente ma che esita in aborto spontaneo entro le primissime settimane, massimo entro la decima. Ci dice che l’unica possibilità è che i tessuti placentari siano effettivamente trisomici ma che il feto abbia un cariotipo normale o una percentuale di mosaico. L’unico modo per saperlo è effettuare l’amniocentesi. In più ci dice che se le ecografie procedono senza evidenziare anomalie la probabilità che il feto sia sano aumentano. Effettuo lì stesso una eco di controllo e la bimba sembra un po’ piccolina ma senza nessuna anomalia.
Mi ritrovo ancora una volta dentro quel vortice di sensazioni e smarrimento che già avevo sperimentato poco meno di un anno prima, ma questa volta non cedo. Decidiamo che stavolta si va avanti, sia quello che sia. Se deve terminare sarà la natura che farà il suo corso, io non deciderò più della vita o morte di nessuno dei miei figli. Così inizio a documentarmi, a studiare, a cercare casi simili al mio. C’è poco, pochissimo, mi rendo conto subito che mi è capitata una cosa rarissima. La genetista ci raccomanda ancora una volta l’amnio e io rifiuto perché non ho intenzione di interrompere e non voglio esporre la gravidanza a ulteriori rischi.
Ogni 2 settimane faccio 300 km per controllare la crescita della bambina. A 16 settimane circa si evidenziano delle anomalie cerebrali. La bambina ha i ventricoli cerebrali dilatati, e in un periodo cosi precoce non è una buona notizia, potrebbe essere idrocefala. I medici si dimostrano decisamente pessimisti facendo trapelare, sempre senza dirlo, quella che per loro è l’unica possibilità: l’interruzione.
Ho capito, vivendo quest’esperienza, che la questione dell’obiezione di coscienza è una delle troppe ipocrisie che costellano le nostre vite. Una ginecologa (non faccio nomi) mi disse, con viso tetro e funereo, che quel cervello non le piaceva per nulla, che quello che vedeva era un disastro. “Cosa dovrei fare?” le ho chiesto… e lei con aria contrita mi risponde: “io sono obiettrice si figuri se posso consigliarle l’aborto”… nessuno te lo dice, ma di fatto ti ci spingono a pedate perché per loro un bambino che nasce malato è un potenziale problema, un bimbo abortito è un potenziale problema risolto.
Io avevo ormai deciso e avevo chiaro il fatto che avrei potuto gestire un’altra disabilità in famiglia ma che non avrei retto emotivamente una nuova interruzione. Cosi andammo avanti preparandoci al peggio.
Nell’era di internet posso dirmi una privilegiata. Grazie al web sono riuscita ad ottenere una buona quantità di informazioni che mi hanno aiutato ad avere un quadro meno incerto su quello che ci stava accadendo, anche per questo motivo mi preme di rendere pubblica la mia vicenda, perché possa essere di aiuto a chi si trova in situazioni simili. Intorno alla 19esima settimana, all’ennesimo appuntamento con la genetista insiste ancora sull’opportunità di fare l’amnio, mi lascia 3 giorni ancora per pensarci, alla fine decido (più per sfinimento) di farla.
L’esame è ancora meno fastidioso della villocentesi, consiste nel prelevamento di liquido amniotico da cui vengono estratte ed esaminate cellule fetali. Dopo mi parcheggiano su un lettino e io, sfinita, dormo per un’ora. Anche per l’amnio sono necessarie 2 settimane di coltura e anche in questo caso si aspetta con ansia.
Intanto, ancora prima di avere l’esito, intorno alla 21esima settimana, riesco ad ottenere una eco di terzo livello al Gemelli a Roma, presso il day hospital di ginecologia con il Prof. Giuseppe Noia. Riesco ad ottenerla tramite l’associazione la Quercia Millenaria che segue le gravidanze difficili a volte con diagnosi terminale. Scrivo qui della Quercia perché non potrò mai ringraziare abbastanza per tutto quello che gratuitamente hanno fatto per il mio caso.
La situazione peggiorava, i ventricoli erano sempre dilatati e in più non era possibile visualizzare il corpo calloso ed il cavo del setto pellucido. Il Prof. Noia mi disse che di per sé l’assenza del corpo calloso poteva non essere un grave problema, ma che nel quadro di una trisomia le cose cambiavano e non poco, la situazione sarebbe potuta evolvere in idrocefalo e sarebbe stato necessario intervenire alla nascita per inserire un catetere cerebrale per drenare il liquido in eccesso, in ogni caso lui non poteva fare previsioni perché non aveva mai avuto casi di questo tipo. Tutti gli altri distretti della bambina erano a posto. Sono tornata in Sardegna quel giorno stesso, ero stanca e affaticata, ma forte di una decisione ormai presa.
Dopo qualche giorno arriva la seconda fatidica telefonata, sempre lei, la genetista mi dice che in amniocentesi il cariotipo della bambina era risultato normale e che su 12 cellule esaminate solo una era trisomica; dunque verosimilmente si trattava di trisomia placentare e la bimba o era sana o aveva una piccolissima percentuale di mosaico. E allora le malformazioni cerebrali come potevamo spiegarle? Nuovo appuntamento dalla genetista, stavolta ci legge da un librone di migliaia di pagine le 6 righe dedicate alla trisomia 16 dove vengono riportati casi di anomalie cardiache, ipospadia, dismorfismi e altre anomalie minori, nemmeno l’ombra di malformazioni cerebrali. Possibile che le malformazioni al cervello non avessero relazione con la trisomia? Non potevamo saperlo e non lo sappiamo nemmeno oggi.
Alla 23esima settimana mi reco al mio ospedale cittadino per una eco di controllo, sentivo qualche piccola e fastidiosa contrazione; l’esito è minaccia d’aborto con funneling. Ricovero immediato.
Sono rimasta in ospedale ad Olbia per 3 settimane fino a quando a 24 settimane, la minaccia d’aborto si è trasformata in minaccia di parto prematuro e sono stata trasferita in un ospedale a 100 km da casa che ha una tin neonatale. Il rischio era che la bimba nascesse prima. Queste tre settimane non sono state affatto esenti da ansie, i medici scuotevano la testa non capendo affatto perché avessi deciso di andare avanti.
Il primario si è premurato di farmi firmare una carta in cui comunicavo che ero stata informata della gravità dell’agenesia del corpo calloso e loro si sollevavano cosi da ogni responsabilità. Intanto la crescita della bambina diminuiva di giorno in giorno. Era sempre almeno 10 giorni indietro e le cose non sembravano aver preso un buona direzione. Io però la sentivo forte, sentivo i suoi movimenti che erano vigorosi e mi rinfrancavano; a volte sembravano messaggi come a dirmi di non mollare perché lei non ne aveva intenzione. Tra una eco e l’altra non ho mai avuto paura che lei non ci fosse più, la sentivo viva e attiva e non mancava mai di tranquillizzarmi. I medici invece mi distruggevano, mi dicevano di non affezionarmi troppo all’idea di questa bambina, oppure che in fondo era solo un feto (come se fosse di poca importanza). Era dura, molto dura.
Ho accolto la 24esima settimana come una liberazione, era il termine ultimo per l’aborto terapeutico, da quel momento hanno smesso la loro opera sotterranea di convincimento e io ho potuto continuare senza dover in continuazione parare i loro colpi. Sono stata trasferita a Sassari, in una struttura fatiscente con personale medico mediocre. L’unica dottoressa che ha preso il mio caso a cuore è stata la Dottoressa Cau che ha voluto indagare il più possibile ed essendo un’ottima ecografista ha potuto farlo.
La bimba non cresceva e lei è stata l’unica a dirmi che nonostante l’incognita bisognava sperare perché la bambina c’era ancora. La dilatazione dei ventricoli era stabile, ed è rimasta tale fino alla nascita e anche dopo. A Sassari sono rimasta per 2 settimane e una mattina il primario di neonatologia insieme a quello di ginecologia mi hanno proposto il trasferimento, avevano paura che la bambina alla nascita avesse bisogno di un intervento di neurochirurgia che in Sardegna non era possibile in nessuna struttura. Mi proposero il Gemelli e accettai vista anche la precedente visita.
A 26 settimane mi trasferivo a Roma in un ospedale lontanissimo da casa mia e da mio figlio che già stava vivendo la mia assenza, senza sapere quanto tempo ci sarei rimasta. Ero sconfortata, stanca e preoccupata per Michele che mi mancava tantissimo. Lo sapevo in buone mani ma lo volevo con me e non potevo averlo. Pensavo a quali ripercussioni questa vicenda avrebbe avuto su di lui e sul suo lavoro di recupero, pensavo a quanto stesse soffrendo la mia assenza dentro la sua apparente invulnerabilità. Con questi pensieri mi trasferirono con un aereo militare al Gemelli.
Era il 12 dicembre 2011. Dopo poco sarebbe arrivato Natale.
Arrivata lì, sono stata sottoposta ad una serie approfondita di controlli. La situazione non era cambiata, la bambina rischiava sempre di nascere in anticipo, era piccola, non arrivava al 5 percentile ma la sua crescita, seppure lenta era costante. Un altro indicatore che i medici usano per prevedere una sindrome cromosomica è la lunghezza del femore; la mia piccola aveva un femore cortissimo e questo faceva supporre molto male. Ho sentito mille volte dire che era sicuramente sindromica, che non si poteva sapere quando sarebbe morta se prima di nascere o subito dopo la nascita. Quando i medici venivano nella mia stanza, al mio capezzale e mi sparavano frasi che mi spezzavano il cuore era davvero difficile non cedere alla disperazione. Ero lontana da casa, con un figlio di 4 anni che non potevo vedere e che aveva già i suoi non pochi problemi, un lavoro da libera professionista abbandonato con conseguenze economiche immaginabili, una bimba in pancia che era una enorme incognita alla quale però non volevo rinunciare. Eppure non mi sono mai sentita sola, lei era con me sempre, si muoveva e scalciava come non poteva fare una bimba gravemente ammalata. Ad ogni ecografia mi dicevano che si muoveva moltissimo e questo era un ottimo segno, voleva dire che nonostante tutto stava bene.
Alla vigilia di Natale una dottoressa venne nella mia stanza e mi disse “prepari il biglietto che per Natale la mandiamo a casa, ma il primo gennaio deve tornare”. Non mi sembrava vero, sarei stata con la mia famiglia a Natale, era il regalo più bello che potessero farmi. La dottoressa si raccomandò di andare al mio ospedale ogni tre giorni per effettuare una flussimetria e se i valori peggioravano di tornare immediatamente.
E così a Natale ero con mio figlio e con il resto della mia famiglia. Che bello è stato, il Natale più apprezzato. Michele era bello più che mai, gli abbiamo spiegato che mamma sarebbe tornata all’ospedale e che lui sarebbe venuto a trovarmi con l’aereo… era entusiasta, il viaggio gli sembrava un’avventura.
Non solo. Il giorno di Natale ho sentito la forte necessità di andare in chiesa e di provare a pregare. Era una cosa che non sapevo fare, ma sentivo la necessità intima di andare. Mi sono recata in una piccola chiesa vicina a casa dei miei, dedicata alla Madonna missionaria e lì sono stata per un po’ in silenzio. Mi sono rivolta a Gesù e a San Francesco d’Assisi. San Francesco è una figura mistica della quale ho sempre subito in fascino, già dall’adolescenza. Lo considero il più grande rivoluzionario dopo Gesù Cristo. Mi sono rivolta a loro e ho detto: “questa bambina che si chiamerà Francesca, è figlia vostra, fate voi ciò che ritenete opportuno, per me andrà bene”. Questa è stata la mia preghiera e loro l’hanno ascoltata. Da allora più volte mi sono rivolta a loro e il mio spirito veniva ristorato sempre.
Il primo gennaio sono tornata al Gemelli, la situazione della bambina era stabile, sempre piccola e sempre con la dilatazione dei ventricoli ma.. sorpresa delle sorprese… si visualizzava il corpo calloso. Non potevo crederci, si erano sbagliati, il corpo calloso c’era, non si poteva sapere se fosse formato completamente o solo parzialmente, ma per me era già una grande notizia. Passarono le settimane con una lentezza estenuante. Avevo a disposizione il pc e potevo navigare alla ricerca di notizie. Grazie a un forum e a una utente che aveva avuto un’esperienza simile alla mia sono riuscita ad entrare in contatto con l’unica associazione esistente al mondo di famiglie con bimbi con trisomia 16 a mosaico.
La sede della DOC16 foundation è in California ma riporta casi da tutto il mondo, ho potuto leggere le loro storie e vedere le foto dei bimbi e questo è stato fondamentale. Ho scoperto che la trisomia 16 a mosaico spesso non provoca gravi danni e che l’evento più frequente è il basso peso alla nascita che poi viene recuperato. I casi realmente gravi sono pochissimi. Ho scritto alla presidentessa dell’associazione che mi ha indirizzato su una genetista della British Columbia University di Vancouver, la quale a sua volta mi ha inviato molto materiale medico e scientifico sulla trisomia 16 che ho prontamente girato ai medici del Gemelli che mi seguivano. Loro non avevano mai visto casi come il mio (a tutt’oggi non credo che in Italia ce ne siano altri, sto cercando ma non ne trovo nessun altro).
Si sono riuniti ginecologi, neonatologi, neurochirurghi e genetisti per esaminare il materiale e decidere sul da farsi. Hanno deciso di mandare avanti la gravidanza il più possibile finché la crescita della bimba c’era, anche se poca. Cosi, tra mille alti e bassi siamo arrivati alla 38esima settimana. Era passato gennaio e ci avvicinavamo alla metà di febbraio, la bambina stava bene, la sua crescita era costante e lenta come sempre. I monitoraggi e le eco erano buone. L’ultima eco fatta 2 settimane prima della nascita stimava un peso di 1,800 kg, pensavo che magari alla nascita sarebbe arrivata a 2 kg e in fin dei conti era un buon peso.
Il mio cesareo venne programmato per il 20 febbraio, un lunedì. Arrivato il giorno fatidico, il ginecologo di turno mi disse che quel giorno non era possibile farla nascere perché la terapia intensiva neonatale era al completo, avremmo dovuto rimandare di giorno in giorno fino alla liberazione di un posto. Non potevo crederci. Erano arrivati tutti dalla Sardegna, mio padre (mia madre era già li dall’inizio del mio ricovero), Antonello e soprattutto Michele che voleva vedere questa sorellina. E invece nulla, non sapevamo quando sarebbe nata. Forse domani o dopo, non si sapeva.
Ma lei aveva deciso che era tempo. Durante la notte tra il 20 e il 21 febbraio arrivarono le prime contrazioni, al mattino erano abbastanza frequenti e il cesareo diventò urgente. Mi portarono in sala operatoria intorno alle 9, i dolori erano già insopportabili e l’anestesia fu una liberazione. Dal momento in cui l’anestesia aveva fatto il suo lavoro, mi soffermai a riflettere su quello che sarebbe successo.
Il momento della nascita l’avevo immaginato migliaia di volte. Avevo pensato, nei momenti bui, che quel momento non sarebbe nemmeno arrivato e che lei non ci sarebbe stata più da molto prima, oppure avevo immaginato un parto gravemente prematuro con l’incognita della sopravvivenza. Ogni volta che qualcuno, un po’ ingenuamente, mi diceva: “chissà a chi somiglierà, di che colore avrà gli occhi” e io pensavo: “chissà se ce li avrà, gli occhi”. I pensieri erano molto tristi a volte e la paura molto forte. Non sapevo cosa sarebbe successo, non sapevo se avrebbe respirato da sola, nonostante i tre cicli di cortisone fatti in gravidanza, non sapevo se aveva malformazioni visibili… insomma era tutto un’incognita.
Volevo che mi dicessero subito se c’erano anomalie gravi o al contrario che mi tranquillizzassero. Appena estratta dalla mia pancia ho sentito un lieve vagito, il rumore che fa un respiro in una bocca piena di liquido. Ho chiesto: “è lei?” e l’infermiera mi ha risposto: “ si, sta facendo la pipì, ottimo segno. È molto piccolina”. Sentii il medico “ora della nascita 10,14”. Dopo la portarono via nella stanza dei neonatologi e sentivo delle urla, dei pianti fortissimi e ho di nuovo chiesi: “ma è lei?” e di nuovo: “sì”, di certo aveva dei bei polmoni!
Un attimo dopo entrò di corsa un’infermiera e a voce molto alta disse: “ 1,520 kg” . Un chilo e mezzo, speravo nei due chili e invece … Chiesi subito se stava bene, mi dissero di sì, che respirava da sola. Mi rilassai. I medici ricucivano la mia panciona e io guardavo fuori dalla finestra e vedevo gli alberi ancora carichi di quella neve che aveva sconvolto la capitale una decina di giorni prima.
Dopo poco arrivò un’infermiera che spingeva una piccola incubatrice da trasporto, l’avvicinò al lettino operatorio e tirò su la testolina di Francesca, la teneva con due dita tanto era piccola. Somigliava così tanto a suo fratello, era cosi carina e piccola! Chiesi all’infermiera se aveva malformazioni visibili o dismorfismi, mi disse che esteriormente era tutto nella norma, per il resto non si poteva ancora sapere. Provai una distensione e un relax ai quali mi abbandonai completamente, sapevo che molto ancora era da verificare ma in quel momento Francesca era nata e stava bene e io mi addormentai mentre mi ricucivano.
Uscita e tornata in camera chiesi subito ad Antonello se l’aveva vista. Sì, l’avevano vista sia lui che i miei e Michele, era piccola e bella. L’avevano portata in terapia intensiva ed era in regime di semi-intensiva visto che non aveva necessità del respiratore.
Io non potevo muovermi alle prese come ero con i postumi della spinale e la morfina del post-operatorio. Mi alzai solo il giorno dopo e con dolori lancinanti mi feci accompagnare in TIN con la sedia a rotelle. La vidi, così piccola, dormiva ed era perfetta. Ancora c’era molto da capire e da scoprire, ma io ero finalmente tranquilla. Adesso doveva crescere per tornarcene finalmente a casa.
Nei giorni seguenti fui dimessa, mio padre, Antonello e Michele tornarono a casa e io rimasi con mia madre nella stanza che avevamo preso grazie ad una associazione attiva al Gemelli, la Genitin, che aiuta genitori con bimbi in terapia intensiva neonatale. La casa era appena fuori dal cancello dell’ospedale, era molto comoda.
Intanto Francesca rimaneva in incubatrice, mangiava con il sondino naso-gastrico pochissimi grammi al giorno di latte materno. Io avevo iniziato a tirare il latte con il tiralatte sperando che arrivasse copioso anche se il tiralatte non è certo come un bambino che si attacca al seno. Al primo colloquio con i medici mi dissero che la dilatazione dei ventricoli permaneva ed era lieve, il corpo calloso era presente e normalmente conformato, non si evidenziavano altre anomalie.
Dopo qualche giorno arrivò l’esito del cariotipo effettuato sul sangue della bambina e sul sangue del cordone ombelicale, l’esito era buono, il cariotipo era normale, nemmeno l’ombra della trisomia. Il giorno dopo la nascita avevano prelevato il sangue a me e Antonello per effettuare alcuni controlli.
Dopo 10 giorni circa mi convocò la genetista che mi spiegò che Francesca ha un cariotipo normale, quindi la conta dei cromosomi è nella norma, ma i suoi due cromosomi 16 sono entrambi miei.
Si chiama disomia uniparentale materna del cromosoma 16 e si verifica per una sorta di riparazione naturale. Dunque effettivamente all’inizio della gravidanza la trisomia era presente, ma in seguito le cellule trisomiche sono state relegate sulla placenta (per questo non funzionava e lei non cresceva), mentre dalle cellule fetali è stato tolto a caso uno dei tre cromosomi 16. Quello tolto a caso era quello paterno e dunque a lei sono rimasti i due materni.
Tutte queste sono informazioni mediche incomprensibili ai più (anche a me prima di questa gravidanza), ma la sostanza qual’è? Questa anomalia cosa comporta? Niente.
Sul referto genetico c’è scritto “UPD 16 mat. sostanzialmente non patogenetica”. L’unica possibilità è che nel mio cromosoma 16, di cui lei ha due copie si nasconda una qualche malattia che in eterozigosi (in me) non si è manifestata. Speriamo di no.
Insomma, in gravidanza l’avevano trattata come un feto terminale per un’anomalia che in realtà non comporta nulla. Questo è successo perché nessun medico sa che cosa sono le anomalie a carico del cromosoma 16 a causa della sua estrema rarità. Di casi come Francesca ne esistono 40 in letteratura medica, in Italia ho cercato e contattato i centri più importanti per conoscere altre famiglie con cui condividere la nostra esperienza e non ne ho trovate.
Intanto Francesca, molto lentamente prendeva peso. Era un’osservata speciale, l’hanno fotografata e presentata ad un convegno di genetica (questo l’ho saputo solo dopo dalla genetista di Cagliari che ha riconosciuto il nostro caso). Io rimanevo li tutto il giorno per darle da mangiare per fare la marsupioterapia (che consiste nel tenere il neonato a contatto con la pelle della mamma). Non posso non soffermarmi a descrivere la terapia intensiva neonatale. Avevo letto molto sulla prematurità e sul recupero di questi piccolissimi. Tutti i genitori raccontavano l’esperienza della terapia intensiva dicendo che chi non la vive non la può immaginare ed è verissimo.
È un reparto durissimo, con gravissimi prematuri, nati anche a 24 settimane con il peso a volte di soli 500 gr. Soffrono molto e l’esito del loro recupero (quando recuperano) è estremamente incerto. I genitori vivono in continuo allarme. Ora stanno bene e un attimo dopo devono essere rianimati, un attimo prima è tutto ok e un attimo dopo non ci sono più. In una settimana ne abbiamo visti morire 3. Francesca è sempre stata bene ma lo stress di quel reparto è palpabile, con i rumorini e suoni continui, le lucette che si accendono e si spengono e le corse forsennate dei medici che quando sei fuori in sala d’attesa non sai se stanno correndo per tuo figlio o per il figlio di chi.
Io ero stremata, volevo andare a casa, contavo i giorni. Quando Francesca ha raggiunto il chilo e 600 grammi (con il calo è arrivata a 1,400 kg) dieci giorni dopo la nascita, l’hanno tolta dall’incubatrice e l’hanno messa nel lettino. È un passaggio molto importante per tutti i bimbi della Tin e ha tutto un rituale che prevede il bagnetto e la prima vestizione. Sono i genitori a farlo, io ero sola e l’ho vestita, l’ho fotografata e mandato subito le immagini ad Antonello. Ero contenta, mancavano pochi giorni al ritorno.
Questo è avvenuto al mattino, nel pomeriggio sono tornata in reparto e lei era di nuovo nuda e in incubatrice…cosa era successo? Il medico mi disse che sospettavano un’infezione e che per precauzione l’avevano rimessa al calduccio. Difatti aveva un’infezione alle vie urinarie e quel giorno stesso iniziarono con l’antibiotico e le sospesero l’alimentazione. Il ritorno a casa si posticipava di almeno altri 10 giorni.
Quello che stava succedendo a Francesca non era grave, lei stava benone in fin dei conti, eppure io ero sull’orlo del tracollo emotivo. Non smettevo più di piangere, non ci riuscivo e la ritenevo una grave mancanza di delicatezza nei riguardi della altre mamme che non piangevano a dirotto e avevano i figli in condizioni ben più gravi della mia.
Mi vergognavo ma non riuscivo a essere lucida. Ora che vedevo Francesca che stava bene e tutte le più grosse paure si erano dissolte, pensavo solo a Michele. Volevo tornare a casa, volevo ritornare a fargli il bagno la sera e a metterlo a letto, volevo preparalo al mattino per andare all’asilo, insomma volevo ritornare ad essere la sua mamma, volevo un barlume di quella normalità che da troppi mesi avevo accantonato.
Francesca, finita la sua cura antibiotica, ha ricominciato a mangiare dal biberon ed era la più famelica del reparto, gli altri ci mettevano 15 o 20 minuti a bere 30 ml di latte per lei erano sufficienti circa 15 secondi, si guadagnò il soprannome di Franci-flash. Intorno al 15 marzo mi dissero che dopo qualche giorno l’avrebbero dimessa, e io speravo che qualcosa non andasse storto in quei tre giorni che ci separavano dalla partenza.
Il 18 marzo 2012, con un peso di 1,880 kg, Francesca è arrivata a casa. Anche su quel viaggio aereo avevo fantasticato mille volte e mi sentivo di nuovo libera. All’aeroporto abbiamo trovato tutti ad aspettarci, nonni zii e il papà ma soprattutto Michele. Quando ha visto da vicino la sua sorellina ha iniziato a saltare di gioia, era felicissimo, gli ho detto “visto mamma è tornata dall’ospedale” e lui ha risposto “e ora non va più”.
Oggi Francesca ha quasi 11 mesi pesa 9 kg ed è in linea con tutte le tabelle di crescita. La dilatazione dei ventricoli permane ma è stabile e non ipertensiva. Il suo sviluppo è ancora tutto da farsi. Sta iniziando con qualche passetto, al momento tutte le tappe sono state rispettate ma ancora il percorso è lungo e noi siamo cautamente ottimisti.
Michele ha già dimenticato i lunghi mesi della mia assenza, ha sofferto un po’ l’intrusione della sorellina come ogni bambino, ma la adora e ogni mattina prima di alzarsi la vuole nel suo letto per un po’ di coccole.
Continua la sua terapia cognitivo-comportamentale, la logopedia, la psicomotricità e la musicoterapia e i risultati si vedono, è un fiore che sboccia piano piano.
Ho scritto questa lunga storia per molte ragioni. Una è quella di lasciare scritta questa vicenda per Francesca per quando sarà grande e potrà leggerla, un’altra ancora è quella di essere d’aiuto a chi attraversa difficoltà simili e ancora per lanciare il messaggio che nulla accade per caso ed ogni evento della vita ha un senso.
Così la riflessione che posso aggiungere riguarda la disabilità, quella che abbiamo tanto temuto e dalla quale volevamo fuggire e che invece ci aveva già scelto. L’esperienza dell’aborto terapeutico ha acquisito un enorme peso nelle scelte fatte nella gravidanza di Francesca, ma la diagnosi di Michele non è stata da meno.
La mia libertà sono loro, i miei figli, nei loro limiti e nelle loro risorse, nelle loro abilità e disabilità.
Ora siamo a casa, tutti insieme e per me, più nessuna libertà da cercare.
di mamma Veronica
PS Scrissi la storia che avete letto sopra, quando Francesca aveva circa un anno. Oggi mia figlia ha due anni e tre mesi. Il suo percorso è appena iniziato, presenta un quadro di ritardo psicomotorio lieve che sta mano mano recuperando. Anche Michele percorre il suo cammino di recupero, e i risultati arrivano, talvolta a sorprenderci.
Io, insieme ad altri genitori di bimbi autistici, abbiamo recentemente fondato un’associazione che si chiama sensibilMente e che si occuperà, nel tempo, di tutela ed integrazione delle persone autistiche.
Cosa posso aggiungere … siamo una famiglia felice, i miei figli imparano la serenità e sono sereni anche loro. La loro vita non è di serie B, non ho mai pensato un attimo che forse sarebbe stato meglio se …
Il mio compito adesso è quello di fare tutto ciò che è in mio potere per migliorare le loro condizioni di vita, attuali e future. Sto scalando le montagne per loro e il mio rammarico più grande è di non averlo fatto anche per la loro sorellina. Scoprire dopo che la forza la avevo per affrontare anche la sua disabilità, lascia l’amaro in bocca e questo è sicuramente il tasto dolente per me. Quella mia figlia (a cui ho dato il nome di Rosa) non l’ho salvata, l’ho persa.
Per il resto, la nostra vita è difficile, come quella di tante altre persone…il  futuro dei miei figli sarà complicato, di più di altri e meno di altri ancora.
Cerco di far passare il messaggio che vivere a contatto con la disabilità non è altro che una delle eventualità della vita, e che la felicità si può scegliere anche da disabili. La cappa di grigiore e tristezza che la gente tutta ci attribuisce non fa altro che alimentare uno stereotipo che non giova a nessuno e che sarebbe tempo di abbandonare. Non è con “l’interruzione volontaria o terapeutica di gravidanza” che ci libereremo delle difficoltà della vita …

http://mammenellarete.nostrofiglio.it/bambino/la-disabilita-non-e-un-limite-siamo-una-famiglia-felice/

sabato 24 maggio 2014

testimonianza sull'aborto

 Accompagnamento post aborto | Elaborazione del lutto

Ringraziamo la giovane mamma e amica che ci hapermesso di pubblicare questa testimonianza.

sindrome-post-aborto
Molto spesso si pensa, ingenuamente, che una donna che abortisce volontariamente non provi rimorsi o dolore per quello che ha fatto. Niente di più falso! Una donna che abortisce nasconde dentro di sè un dolore a volte inconscio, altre volte più consapevole per il dramma che ha vissuto. E’ un dolore muto, silenzioso, solitario, che solo coloro che hanno provato possono veramente capire nella sua drammaticità, ma che oggi è finalmente stato riconosciuto in una vera e propria sindrome, la sindrome post aborto (o sindrome post abortiva).
Nei Centri di Aiuto alla Vita puoi trovare delle persone formate appositamente per sostenere ed accompagnare una donna che vive il dolore della sindrome post abortiva ed aiutarla ad elaborare il lutto per quel figlio non nato.
Leggi qui la testimonianza di una donna seguita dal Centro di Aiuto alla Vita di Treviso:

Un angelo di nome Alessandro

A 17 anni ero una ragazza magrolina, con i capelli biondi a spazzola, solare, sognatrice e forse un po’ troppo chiacchierona. ero insieme ad un altro ragazzo, ci frequentavamo ormai da tre anni e da pochissimo avevamo provato a fare l’amore. Quando cominciai ad avere le prime nausee pensai fosse solo un po’ di gastrite, poi pian piano il dubbio di essere incinta si fece strada in me. Non so con quale coraggio riuscii a parlarne a mia mamma, ricordo solo tante lacrime e tanta paura. E la mia paura si rivelò fondata, perché il test comprato in farmacia indicò chiaramente che ero incinta. Del mese che seguì non ho che ricordi frammentati, vivevo come immersa in una bolla di confusione e incertezza, concentrata su me stessa e staccata da tutto ciò che mi circondava. Avevo la sensazione che tutto fosse troppo veloce e troppo intenso, che gli eventi precipitassero senza che io riuscissi ad afferrarne davvero il senso. A casa l’atmosfera era pesante, io non sapevo cosa fare, come reagire. Era una cosa talmente grande per me, un problema senza soluzioni… e per di più non potevo parlarne con nessuna amica, non potevo chiedere consigli a nessuno… Finché qualcuno mi disse che avevo la possibilità di abortire. Entro i 3 mesi era legale. Fu come una boccata d’aria. I miei genitori, anche loro molto disorientati ed incerti, mi accompagnarono da una psicologa perché mi aiutasse a capire cosa volevo fare. Ma come si fa a chiedere ad una ragazzina di 17 anni cosa vuole fare? Io l’unica cosa che riuscivo a pensare era che non volevo affrontare i pettegolezzi, non volevo andare a scuola con il pancione sotto gli occhi di tutti. Io non ero abbastanza forte per tutto ciò! Non riuscivo a vedere nessun aspetto positivo nell’essere incinta, era solo qualcosa che mi faceva stare terribilmente male e vomitare tutto il giorno.
Allora quella psicologa mi disse che quello che avevo in pancia, potevo vederlo semplicemente come un ammasso di cellule che si riproducevano, niente di molto diverso da un cancro che si poteva eliminare con una semplice operazione.
Uscii da quella stanza vedendo finalmente un po’ di luce in fondo al tunnel nel quale mi sentivo prigioniera. Mi dissi che, in fin dei conti, stavo solo dicendo a quel “non ancora bambino” di tornare in un secondo momento, quando sarei stata più grande e pronta. Come dire, “ritenta, sarai più fortunato”.
Poi di nuovo le cose precipitarono, se volevo abortire dovevo fare in fretta, il ginecologo, un lunedì mi fissò l’intervento per il venerdì stesso. Nel mio diario quella sera scrissi “aiuto, è troppo presto!”
Non riesco a raccontare con facilità il giorno dell’intervento. So che mi sentii estremamente sola. Troppo sola, nervosa e impaurita.
Ma, come ogni cosa nella vita, anche quella giornata passò. E non ne parlai mai più con nessuno, né con i miei quando mi riportarono a casa, nè con il mio ragazzo.
Dentro di me ero convinta di aver fatto la cosa giusta… o almeno l’unica cosa che ero in grado di fare.
Fu molto semplice riprendere la mia vita esattamente dove l’avevo lasciata un mese prima. Da quel giorno ho continuato ad andare a scuola, mi sono laureata, ho lasciato quel ragazzo ed ho conosciuto Matteo, mio marito. La mia vita è stata normalissima e senza nessun rimpianto o senso di colpa. Pensavo che quello che era successo non mi avesse lasciato nessuna ferita.
Finchè, dopo il matrimonio, ho cominciato a sentire qualcosa che mi soffocava, qualcosa che voleva a tutti i costi uscire, venire a galla ma che non sapevo cos’era e per paura ricacciavo indietro, in basso. Mi sentivo sempre più insoddisfatta e prigioniera.
donna-incinta-non-sei-sola2Non lasciavo che mio marito mi conoscesse e mi amasse davvero fino in fondo perché percepivo di essere sporca, di essere cattiva e di non meritare davvero di essere felice.
Abbiamo cominciato una terapia di coppia che mi ha fatto capire cos’era ciò che mi bloccava: era proprio quell’aborto che avevo fatto 12 anni prima, che pensavo completamente superato ma non lo era affatto. Pesava su di me come un macigno e non mi permetteva di lasciarmi amare davvero perché io per prima, nel profondo, non mi amavo e non mi perdonavo.
Perché me ne sono resa conto solo dopo così tanto tempo? Non lo so, io credo che il Signore mi sentisse finalmente abbastanza matura e forte per poter ri-elaborare quell’esperienza.
Sono andata a trovare il mio padre spirituale e, durante la confessione, ho chiesto perdono per quello che avevo fatto. Non è stato facile parlarne, ma soprattutto non mi sono sentita meglio dopo, perché non riuscivo a perdonare me stessa. Avevo bisogno di aiuto, di una guida… la trovai in una splendida volontaria del CAV (il centro di aiuto per la vita). Con lei cominciai il mio percorso di elaborazione dell’aborto.
Lentamente sono riuscita ad ammettere di aver perso un figlio, un bambino, che era vivo dentro di me, non un semplice ammasso di cellule, e quindi ad accettare il fatto che ero una mamma anch’io, anche se mio figlio non era nato.
Quanta sofferenza e quanta fatica ho fatto a chiamare me stessa “mamma”. Una mamma dovrebbe prendersi cura di suo figlio, dovrebbe proteggerlo, amarlo e accettarlo sempre per quello che è… ed io ho fatto tutto il contrario, l’ho rinnegato, non l’ho lasciato “essere”, vivere. E’ una cosa imperdonabile, non potrò fare mai niente per tornare indietro, per riavere il mio bambino.
Ma ho capito che, se non posso cancellare quell’errore, posso almeno cercare di dare una dignità a quella vita mancata.
Ho dato un nome al mio bambino, Alessandro, gli ho comprato un ciuccio ed ho cominciato a parlargli, scrivendogli una lunga lettera. Gli ho finalmente detto che nel profondo, io lo sentivo, l’ho sempre sentito.
Quando era dentro di me, anche se non lo ammettevo neanche a me stessa e cercavo di soffocare quel pensiero, io sapevo che lui era già una creatura viva, un dono di Dio che purtroppo non avevo avuto il coraggio di accettare. Gli ho chiesto scusa e gli ho detto che lo amo, di un amore profondo, diverso da quello che provo per chiunque altro, perché lui è parte di me, è il mio bambino. Sbagliavo a pensare di averlo messo in “standby” per quando sarei stata pronta, lui è uno ed unico.
Nessun altro figlio sarà lui o lo sostituirà.
Questa considerazione, questa certezza, mi ha animato del desiderio di parlare di lui a chi mi sta più vicino. Così, oltre a mio marito, al quale fin dal primo incontro raccontavo tutto, ho parlato di Alessandro anche ai miei genitori. Non avevamo mai più nominato quanto era accaduto 12 anni prima, ma sapevo che anche loro avevano sofferto molto per quella scelta così difficile. Ho letto loro la lettera che avevo scritto ad Alessandro, e sono rimasta sorpresa e felice perché, commossi, mi hanno ringraziato ed anche loro hanno poi voluto scrivergliene una. Eravamo tutti e tre prigionieri di quel tacito accordo di segretezza che teneva ciascuno di noi rinchiuso nel proprio dolore. Ma l’amore porta amore …
Sono riuscita a parlare di Alessandro anche alle due mie più care amiche… Ero felice perché sentivo che stavo restituendo ad Alessandro la sua famiglia. Ora aveva davvero dei nonni, delle zie e un secondo papà, mio marito che gli volevano bene e pregavano per lui.
Ma sapevo che non era ancora abbastanza, mancava la cosa più importante: parlare di Alessandro con il suo vero papà, il mio ex ragazzo, col quale non avevo più grandi rapporti da quasi 9 anni e mi spaventava la sua possibile reazione… Temevo di imporgli di parlare di una cosa che a lui non interessava minimamente e che mi dicesse che non voleva sapere. E invece… la sua risposta mi ha letteralmente lasciata di stucco ma allo stesso tempo felice: anche lui aveva pensato spesso, in tutti questi anni, a quel bambino mancato e anche lui aveva sofferto molto e si era fatto aiutare per superare il senso di colpa.
E’ incredibile… in tutti questi anni ciascuno di noi (io, lui, i miei genitori) soffriva, ciascuno a suo modo e ciascuno completamente solo, isolato… ed ora, invece, semplicemente trovando il coraggio di parlarne, c’è qualcosa che ci unisce.
Alessandro ha una vera famiglia che gli vuole bene, e probabilmente è amato molto di più di quanto (purtroppo) lo siano tanti bambini in questo mondo. mi sembra quasi un miracolo tutto questo…
Qualche tempo dopo abbiamo celebrato una messa per Alessandro. E’ stata una celebrazione molto sofferta per me, perché l’ho vissuta come un distacco, ma allo stesso tempo mi ha sollevata, perché ho intuito che Alessandro non era più legato a me dal mio senso di colpa, ma era a fianco del Signore. Il giorno dopo, assieme a mio marito, sono andata al mare, nella località dove Alessandro è stato concepito. Ho cercato un boschetto, vicino alla spiaggia, e li, ai piedi di un albero, ho sepolto il suo ciuccio.
E finalmente ho lasciato entrare mio marito nel profondo del mio cuore, ora mi sento degna di essere amata e da questo amore sono nate i nostri bimbi Luca e Anna.
Sono stati davvero un regalo stupendo ed inaspettato del Signore… forse anche Lui voleva farmi capire che mi ha perdonata e che ha tanta fiducia in me e mio marito da affidarci ben due Sue creature.
Noi facciamo del nostro meglio, ma sappiamo anche che sono in buone mani, perché hanno come fratello un angelo di nome Alessandro…


fonte: blog del Cav di Cornuda

Tornano i saggi della Spartum domenica 1° giugno e lunedì 2 giugno

http://www.spartum.it/

martedì 6 maggio 2014

I nostri concorsi scolastici: "come far fiorire la vita" e "Come posso io giovane d'oggi, vivere la vita in pienezza?"

Si svolgeranno mercoledì 4 giugno 2014 dalle ore 9,30 alle 11,00 per le scuole primarie e dalle ore 11,15 alle 13,15 le premiazioni dei concorsi scolastici promossi dal Movimento per la Vita di Campodarsego, presso il Cinema Teatro Aurora.




I concorsi scolastici sono dedicati alla memoria di Chiara Bano, quattordicenne della Parrocchia di Campodarsego, giovane amante della vita, davvero impegnata in molti campi.



Al concorso "come far fiorire la vita"
rivolto alle scuole per l'infanzia e primarie del territorio, hanno partecipato tutto il plesso di Fiumicello, le classi seconde e le classi quarte di Via Verdi, le classi 1^-2^-3^ e 5^di Via A.Moro dell'Istituto Comprensivo di Campodarsego, oltre alla classe prima di Villanova dell'I.C. di Borgoricco e alla classe finale della scuola dell'infanzia di S.Maria di Non, in tutto circa 250 bambini.
I lavori presentati sono stati ritenuti molto belli dalla Commissione del Movimento per la vita che ha deciso di allestire una piccola mostra nell'atrio del Cinema Aurora in modo che anche i genitori dei piccoli partecipanti possano ammirare i lavori svolti. La classe quinta di Via Aldo Moro si esibirà con una simpatica canzone sul tema della vita.  Nel corso della premiazione una mamma professionista del racconto, racconterà ai bambini una bellissima storia sull'accoglienza, modalità idonea secondo noi a far fiorire la vita...e verranno letti alcuni pensieri raccolti dai bambini direttamente dai propri genitori che sono stati coinvolti. Alcune ballerine della scuola secondaria ci delizieranno al termine della prima parte della manifestazione con una loro coreografia.

Al concorso "Come posso io giovane d'oggi, vivere la vita in pienezza?" hanno partecipato una settantina di ragazzi della scuola secondaria dell'Istituto Comprensivo di Campodarsego e tre giovani della Parrocchia, con vari forme espressive: temi, video, disegno, canto e danza. Tutte forme espressive che Chiara amava molto.
Un'alunna ci proporrà una canzone e 8 alunne riproporranno la loro coreografia, verranno letti i temi vincitori, proiettati i lavori multimediali e si procederà a premiare ogni categoria di lavoro presentato.
Al termine della premiazione verrà letta la testimonianza di Sara, giovane di Campodarsego.


mercoledì 9 aprile 2014

5X1000



  
E’ TEMPO DI DENUNCIA DEI REDDITI.
VI   INVITIAMO A DEVOLVERE IL 5X1000 AL CAV DI CAMPODARSEGO E AD INVITARE ALTRE PERSONE A FARE ALTRETTANTO.

IL VOSTRO 5X1000 SERVIRA’ AD AIUTARE BIMBI E FAMIGLIE IN DIFFICOLTA’ 

IL CODICE FISCALE E’ IL SEGUENTE: 92205280289 GRAZIE

lunedì 24 marzo 2014

Grazie di non avermi buttato via, testimonianza di Katheryn Deprill


Grazie di non avermi buttato viaUna notizia che proviene dagli Stati Uniti e ha fatto commuovere e riflettere il web su un tema delicato quanto l’aborto e la dolorosa scelta dell’abbandono del figlio appena nato. Una testimonianza tratta dal blog dei nostri amici Giovani Prolife.
Ogni volta che si affronta il tema di una gravidanza difficile ognuno ha una voce, la mamma, il papà, la famiglia, i medici e gli assistenti, anche i volontari in difesa della vita. In particolare chi difende la vita cerca di dare voce al bambino che non ancora nato è l’unico protagonista silenzioso di ogni esperienza di maternità e paternità.
Ma che succede se a parlare è direttamente la bambina che rischia di essere “buttata via”? Poco importa se questa voce ha impiegato 27 anni, tanti ne ha Katheryn Deprill, una giovane ragazza degli Stati Uniti che ha affidato a Facebook il suo appello: “sto cercando la mia mamma naturale, mi ha dato alla luce il 15 settembre 1986, mi ha abbandonato nel bagno del Burger King poche ore dopo la nascita, aiutatemi a trovarla condividendo il mio post, forse lo vedrà”.
Intervistata dal canale Fox, Katheryn si è confidata: “ a meno che uno non sia adottato, non è possibile capire quella parte di te che ti manca quando non sai chi sono i tuoi genitori”. Da qui l’idea dell’appello sul social network per ringraziarla: “non riesco a pensare cosa abbia passato, forse viveva una relazione clandestina, ci sono così tante possibili eventualità che non si possono sapere senza mettersi nei suoi panni”.
Ora spera che la sua storia possa essere d’esempio per tutti quei genitori che non sono in grado di tenere i propri figli: “c’è sempre una possibilità piuttosto che buttare via il proprio bambino, l’adozione è una cosa meravigliosa”. Una testimonianza preziosa che dimostra come scegliere la vita sia sempre la scelta giusta… e in bocca al lupo a Katheryn per la sua ricerca.
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Articolo tratto da giovaniprolife.org

testimonianza di Valentina

Ciao!
Sono Valentina e abito a Rivale di Pianiga, un piccolo paesino in provincia di Venezia.
Abito qui dal 1995 quando io e Luciano ci siamo sposati e insieme abbiamo costruito la nostra piccola casa, con l'intenzione di "riempirla" dei figli che il Signore avrebbe voluto donarci.
E il primo "regalo" non si è fatto attendere: l'anno successivo, nel 1996, è nato Riccardo che ha subito colmato di gioia, colore, attenzioni e naturalmente... anche impegno e preoccupazioni la nostra vita.
Per scelta, accettando e mettendo in preventivo anche qualche difficoltà, abbiamo deciso che avrei fatto la mamma a tempo pieno; ho così lasciato il lavoro che svolgevo già da qualche anno nel settore amministrativo e mi sono dedicata ad assaporare ogni prezioso istante della crescita del mio bambino.
A dare ancor più gioia alla nostra vita familiare è arrivata nel 2001 Caterina, una sorellina per Riccardo, un nuovo dono per tutti noi. Ma ancora la nostra gioia non era piena e così bussò alla nostra porta nel 2003 un nuovo cuoricino, quello di Chiara.
Tutte e tre le gravidanze sono state per me un po' particolari e difficoltose, ma quella di Chiara aveva dato dei segni unici e inequivocabili e ci aveva da subito costretti a scelte inattese e difficili, rimanendo costellata tuttavia anche di tante speranze e attese.Chiara è stata per tutti noi la vita, anche se questa vita è durata solo 13 giorni.
Tutti insieme abbiamo accompagnato con tanto amore la creatura che il Signore ci aveva affidato come unica ed irripetibile, il più delle volte semplicemente accettando un "dono" così speciale da non potersi tradurre in un "perchè" senza risposta.
Chiara non è sicuramente passata nella nostra vita senza una ragione e se grande è stato il dolore umano sia durante l'attesa che nel momento della perdita, altrettanto grande è stato l'insegnamento che ci ha portato e il miracolo d'amore che ha operato nella vita di noi che le siamo stati accanto.
Per questo, provando a tradurre con lo scritto ciò che il cuore prova, ho cercato di trasmettere anche ad altre mamme in difficoltà, attraverso le pagine del mio libro, una frase che fin da piccola avevo letto e della quale il significato non avevo ben compreso fino al momento della nascita di Chiara:
"Alla vita non dire mai di no, perchè sei eterno quando ami la vita."

pubblicato da Patrizia

domenica 23 marzo 2014

Un cuoricino di nome Chiara


foto di Associazione Zibaldone.




Libri in volo - VALENTINA OLIVI

Giovedì 20 marzo in occasione della rassegna Libri in volo abbiamo partecipato in sala consiliare del comune di  Massanzago a una testimonianza davvero stupenda! Valentina Olivi ci ha raccontato la sua storia vera di vita.

Chiara, questo il nome che Valentina decide di mettere alla sua terza figlia. Ma la gravidanza è difficile a causa di una malattia di Chiara, diagnosticata già nei primi mesi di gravidanza e la maamma deve scegliere subito se interromperla o accettare, con costi alti e senza certezze, la nuova vita. Questo libro racconta in prima persona la storia di questa donna coraggiosa che decide di non abortire, nonostante le venga suggerito, e si sottopone a cure delicate e dolorose pur di salvaguardare la vita della sua piccola. È un libro che traccia un percorso attraverso il dolore acuto e silenzioso di una madre che si trova a scegliere tra la vita e la morte, un percorso faticoso, che coinvolge il marito e i due bambini. La piccola Chiara, nonostante tutte le cure, le speranze e i desideri di vita dei suoi genitori, muore alcuni giorni dopo la nascita. La dura realtà della malattia e della morte della piccola Chiara viene vissuta con sofferenza, talvolta anche con ribellione, dall'autrice e dalla sua famiglia, ma sempre prevale la fede nella vita e in Dio.

Abbiamo sentito viva la presenza di Chiara!


Le mamme
stringono le mani
dei loro bimbi
per un po'
e i loro cuori
  per sempre...

 

Il nostro amore oltre ogni limite: testimonianza della moglie di Riccardo, marito e padre malato di SLA

http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-2e9323fd-c038-46a5-ab48-ed12dc3a65ae.html

CONVEGNO DEL MPV A CONEGLIANO "PADRE E MADRE o GENITORE 1° E 2°"?


Il 15 marzo 2014 alla Nostra Famiglia di Conegliano si è tenuto il convegno (promosso dal mPV "Dario Casadei" di Conegliano e dalla Pastorale Familiare delle diocesi di TV e Vittorio Veneto) dal titolo "PADRE E MADRE o GENITORE 1° E 2°"? Sono intervenuti GINO SOLDERA - BRUNO MOZZANEGA - ASTOLFO ROMANO - GIAN LUIGI GIGLI - GIAMPAOLO MAZZARRA
https://www.youtube.com/watch?v=Iq096Zo12FA